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Diritti umani, News europee

Hotspot Europa. Gli accordi, le quote e gli esclusi.

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I dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHRC) ci dicono che oltre 449 mila persone hanno attraversato il Mediterraneo nel 2015 nel disperato tentativo di raggiungere l’Europa. L’82% di loro proviene dai primi 10 Paesi al mondo per movimenti di richiedenti asilo e quindi potenzialmente idonei a ricevere protezione internazionale. Secondo UNICEF, 133 mila bambini hanno fatto domanda di asilo in Europa (80% in più del 2014) e come sostiene l’OSCE nel suo ultimo rapporto, si potrebbe arrivare a più di  1 milione di richieste di asilo nell’UE nel solo 2015.

A fronte di questa crisi umanitaria senza precedenti, anche quest’anno l’Unione Europea si è mossa con colpevole ritardo rispetto a ciò che era prevedibile e che tragicamente si è manifestato, ancora una volta, a partire dal drammatico naufragio del 19 aprile scorso nel Mediterraneo. Alla morte dei circa 800 di migranti annegati al largo della Libia è seguita la prima bozza dell’Agenda europea sull’immigrazione 2015-2020.  I pilastri del documento sono il rafforzamento dei controlli delle frontiere a Sud, le missioni di sicurezza e di difesa contro i trafficanti e gli scafisti e la futura obbligatorietà della distribuzione delle quote dei rifugiati  a livello UE, attraverso criteri impostati sulla popolazione, il PIL, il tasso di disoccupazione e il numero dei richiedenti già accolti dai singoli Stati membri. La sicurezza delle persone, anche questa volta, non sembra essere ancora una delle priorità.

Le morti in mare e le privazioni nei confronti dei migranti non si sono arrestate, anzi si sono moltiplicate col passare delle settimane. L’attualità di questi giorni ci restituisce uno scenario in continua evoluzione, con il susseguirsi di sbarchi, in particolare in Grecia, e una forte pressione dei flussi migratori verso i confini continentali di Ungheria, Serbia e Croazia. Ai numeri senza nome hanno fatto seguito anche immagini forti, a cui non ci eravamo ancora abituati, in particolare quelle dei più piccoli – che hanno restituito il volto umano di una tragedia umanitaria che sappiamo non si esaurirà – che solo in parte hanno scosso la coscienza europea.

Sono seguiti nuovi tentativi di discesa in campo da parte dell’UE, l’ennesimo è andato in scena lo scorso 14 settembre, al tavolo del Consiglio Giustizia e Affari Interni (GAI), quando i ministri dell’Interno e della Giustizia dei Paesi membri si sono riuniti per discutere, in via straordinaria, d’immigrazione e di accoglienza. La decisione a cui si è arrivati – e che anche le Nazioni Unite hanno bollato come “deludente” – prevedeva il trasferimento di 40 mila profughi entro i prossimi due anni, purché in stato di “evidente bisogno di protezione internazionale” e arrivati in Italia oppure in Grecia tra il 16 settembre 2015 e il 7 settembre 2017.

L’intesa raggiunta al GAI, ovvero la semplice attuazione di quanto già deciso dal Consiglio europeo lo scorso giugno, non ha tenuto conto di un aspetto fondamentale, ovvero del sistema obbligatorio delle quote tra i Paesi UE, come invece previsto dall’Agenda europea sull’immigrazione. Di fatto, ciò rimandava ad una accoglienza su base volontaria da parte dei singoli Stati membri. Nulla di diverso da quello che ha iniziato a fare la Germania con i rifugiati siriani e che chiaramente non può rappresentare da sola una soluzione di lungo periodo.

La vera questione era stabilire i criteri e le modalità di attuazione delle proposta fatta lo scorso 9 settembre dalla Commissione che aveva richiesto la distribuzione nei Paesi membri di almeno 120 mila richiedenti asilo provenienti da Grecia, Italia e Ungheria.  Sebbene si tratti di briciole se messe in relazione agli attuali numeri del fenomeno immigrazione, era su questo tema centrale che si auspicava una condivisione d’intenti e di responsabilità da parte dei ministri dell’Interno e della Giustizia UE, che invece poi non è arrivata.

Almeno fino giovedì scorso, 17 settembre, quando il Parlamento europeo ha votato con procedura d’urgenza a favore della proposta della Commissione di ricollocazione di emergenza dei già noti 120 mila richiedenti asilo provenienti da Italia (15.600), Grecia (50.400) e Ungheria (54.000), che sommati agli iniziali 40 mila, avrebbero dovuto garantire un totale di 160 mila persone. Una cifra che evidentemente non può risolvere e non risolverà il problema, sia  nell’immediato sia in futuro, considerato che da gennaio e luglio di quest’anno le richieste d’asilo sono state oltre 438.000 (571.000 in tutto il 2014).

Più concreta è stata, invece, la proposta del Presidente del PE, Martin Schulz, che prima del voto ha informato l’Aula di voler inviare a nome del Parlamento una lettera al Presidente del Consiglio dell’UE, Xavier Bettel, di richiesta di fondi comunitari a sostegno dei Paesi cuscinetto dell’Europa che più di tutti sono impegnati  in prima linea nell’accoglienza dei profughi, soprattutto siriani: il Libano, la Giordania e la Turchia. Tanto per dare significato ai numeri, il piccolo e nemmeno troppo ricco Libano, che ha una superficie del territorio inferiore alla Regione Abruzzo, da solo accoglie oltre un milione di rifugiati, ovvero un quarto della sua popolazione. È il paese con la maggiore incidenza pro capite di rifugiati al mondo.

La palla, a questo punto, è passata nuovamente nelle mani del GAI, che non potendo più rimandare a una nuova decisione, il 22 settembre ha votato a maggioranza per il ricollocamento dei titolari di protezione internazionale e richiedenti asilo. Come era nell’aria, alla decisione si sono opposti Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania, che hanno votato contro l’accordo perché contrari al sistema delle quote. La Finlandia si è astenuta, mentre Danimarca, Regno Unito e Irlanda non prenderanno parte al piano, almeno per il momento.

Il dissenso dei paesi dell’Est ha avuto comunque un effetto non da poco. Infatti, non potranno essere ricollocate 120.000 persone come da accordi iniziali, ma solamente 66.000  (15.600 dall’Italia e 50.400 dalla Grecia). I restanti 54.000 previsti in partenza dall’Ungheria resteranno in una situazione di stallo per un tempo incerto, a causa dello strappo messo in atto dal premier Viktor Orban. Una possibilità potrebbe addirittura essere il non riconoscimento della quota ungherese e la rassegnazione della stessa in via proporzionale a Italia e Grecia.

La sigla dell’accordo prevede anche l’introduzione di “deroghe temporanee” per quegli Stati che a causa di eventi di natura straordinaria non potranno assicurare l’accoglienza (ad esempio a  causa di calamità naturali), in questo caso il periodo di deroga non potrà superare i 6 mesi e avrà effetto sul 30% della quota precedentemente assegnata.

Infine, saranno introdotti gli hotspots, ovvero i centri di prima identificazione dei richiedenti asilo e di smistamento degli stessi nelle strutture di accoglienza nazionali. In realtà si tratta di strutture già esistenti e funzionanti dove i migranti, non tutti, venivano identificati. Tali centri saranno presieduti dalle autorità di polizia dello Stato e dai funzionari delle agenzie europee Frontex, Europol, Eurojust ed Easo. I migranti potranno essere trattenuti fino ad un massimo di 72 ore e nel caso rifiutino la registrazione saranno trasferiti nei Centri d’identificazione ed espulsione (CIE) in attesa del rimpatrio. Gli hotspots saranno attivati nei punti di primo approdo per un totale di 7 centri europei, di cui 5 in Italia (Lampedusa, Porto Empedocle, Pozzallo, Augusta e Trapani) e 2 in Grecia (Porto del Pireo e Kos).

Dal Ministero dell’Interno, intanto, riferiscono che l’hotspot Lampedusa è già attivo da qualche giorno in fase sperimentale e al suo interno operano solo le autorità italiane, insieme  un rappresentante dell’UNHRC per la tutela dei diritti. Ma come fa notare Giusy Nicolini, sindaco di Lampedusa, non siamo certo di fronte ad una novità, considerato che queste strutture erano già operative. La differenza sostanziale è che solo coloro che sono arrivati dopo il 15 agosto 2015 saranno idonei ai criteri di ricollocamento per quota nei Paesi membri. “E quelli che sono arrivati prima? Perché a loro non si applica?

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Angelo Motola
Angelo Motola

Analista delle politiche d’immigrazione, dal 2012 collabora come ricercatore con l’Istituto di Ricerche Internazionale Archivio Disarmo (IRIAD)

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